Politicità e giuridicità delle decisioni pubbliche nelle lezioni di Roberto Toniatti

Riflessioni sul Metodo Comparato

Antonio Cassatella

Professore associato di diritto amministrativo, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento.

Ho conosciuto Roberto Toniatti nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, frequentando il corso di Diritto Costituzionale di cui egli era titolare alla fine degli anni Novanta.

Lo studente del secondo anno poteva supporre che le sue lezioni avessero ad oggetto un approfondimento delle nozioni apprese nel corso di Istituzioni di diritto pubblico, così da agevolare la progressione delle proprie conoscenze.

Tale, in effetti, era l’impressione di chi si avvicinasse alla materia a partire dalle indicazioni fornite dalla Guida allora predisposta dalla Facoltà. I materiali di studio erano rappresentati da un manuale composto da una serie di magistrali contributi, da una raccolta di saggi sull’interpretazione costituzionale e da una monografia di teoria generale del diritto, dedicata al principio di legalità ed alla sua declinazione nei confronti dei giudici (1).

Le attese venivano smentite in aula. Le lezioni di Toniatti non avevano ad oggetto una materia scolasticamente qualificabile come “diritto costituzionale”, ma il modo attraverso cui i valori e gli interessi sottesi alla Costituzione ed alle fonti di diritto europeo assumevano rilievo nell’attività legislativa, amministrativa e giurisdizionale (2). Non si esponeva quindi “un” diritto costituzionale (ideale o reale), ma un’interpretazione costituzionalmente (e comunitariamente) orientabile del diritto positivo interno.

Nessuna lezione muoveva dalla definizione di un istituto o dalla pretesa di coglierne la portata nell’ambito della sistematica tradizionale. Si partiva, invece, da un caso concreto, solitamente deciso dalla Corte Costituzionale, per verificare come i valori e gli interessi sottesi alla controversia venissero valutati, graduati e bilanciati ai fini della decisione (3).

La sentenza della Corte, tuttavia, non rappresentava l’esito della vicenda, ma il momento iniziale per ulteriori riflessioni finalizzate a cogliere l’impatto delle pronunce nel contesto istituzionale. Ciascuna decisione costituiva, infatti, il presupposto per ulteriori interventi legislativi, per lo sviluppo di nuove direttrici interpretative, e, non ultimo, per l’insorgenza di possibili ulteriori conflitti.

L’incidenza della Costituzione nell’ordinamento giuridico era colta in termini rigorosamente scientifici, intendendo con tale aggettivo l’assenza di qualsiasi tentativo di “sacralizzare” la Carta, sulla scia delle differenti posizioni ideologiche assunte dall’interprete. La stessa Costituzione non era descritta come la fonte suprema dell’ordinamento, ma era essa stessa parte del conflitto, strumento per l’affermazione di un determinato assetto di interessi contro tesi di segno opposto, che, a propria volta, si fondavano sul carattere elastico delle sue previsioni.

Si tratta di un atteggiamento che poteva disorientare lo studente in cerca delle certezze fornite dal normativismo di matrice kelseniana o dall’istituzionalismo che, pur postulando la pluralità degli ordinamenti, affida allo Stato-persona ed al legislatore il compito ultimo di ridurre la complessità e neutralizzare il conflitto.

Rileggendo gli appunti tratti da quelle lezioni alla luce della mia successiva esperienza, mi pare di cogliere in quell’approccio due dei principali meriti scientifici di Toniatti.

Contro un costituzionalismo autoreferenziale, il docente ci mostrava come l’efficacia e la stessa effettività della Costituzione dovesse essere colta in rapporto all’esercizio delle funzioni giurisdizionali ed amministrative. La disciplina del processo e dell’azione amministrativa, da cogliere anche in rapporto alle prassi interpretative, erano il metro di valutazione dell’effettività stessa dei valori costituzionali.

Contro una scienza del diritto comparato che spesso si compiace del proprio antiformalismo fino ad assumere una posizione critica nei confronti dello stesso positivismo logico e dell’autonomia del giuridico, Toniatti ribadiva la necessità di uno studio specifico ed autonomo del diritto. In queste lezioni, il diritto comparato era utile a demistificare certi assiomi appresi nel corso della formazione istituzionale, ma lasciava al cultore del diritto interno (ed europeo o internazionale) il compito di individuare le categorie logiche utili a spiegare i singoli fenomeni.

Nella prospettiva di Toniatti, il giurista rimaneva un tecnico tenuto luogo ad individuare le norme applicabili nella soluzione di problemi e ad interpretarle al fine di giungere ad una motivata conclusione del proprio ragionamento. In questa attività si esprimeva la stessa “giuridicità” delle prassi interpretative.

Il discorso giuridico poteva essere così distinto dal discorso politico, di cui non si intendeva certo negare la rilevanza, ma di cui si rimarcava la diversità rispetto alla riflessione tecnica svolta dai giuristi.

Il rapporto fra giuridico e politico veniva affrontato da Toniatti nella prospettiva del bilanciamento di interessi effettuato dalla Corte Costituzionale, specie nell’ambito delle sentenze interpretative di rigetto o di accoglimento e nelle c.d. sentenze manipolative. Si trattava di decisioni che, pur lasciando inalterata la disciplina formale della materia sottoposta a q.l.c., evidenziavano meglio di altre il ruolo surrettiziamente creativo – e, quindi, politico – della giurisprudenza della Corte.

Dal punto di vista di Toniatti, era indubbio che qualsiasi bilanciamento di interessi fosse connotato da un’intrinseca politicità, in linea con i maggiori risultati conseguiti dalla teoria generale del diritto pubblico. Questo non toglieva che la matrice politica del bilanciamento dovesse essere oggetto di razionalizzazione, mediante l’uso del ragionamento giuridico e, soprattutto, attraverso la motivazione degli atti dei pubblici poteri.

Assumeva una centrale rilevanza, rispetto alle lezioni di Toniatti, la motivazione delle sentenze della Corte Costituzionale (4). Il modo in cui il tema veniva sviluppato implica una parentesi sul significato della motivazione delle decisioni pubbliche.

Mentre la decisione degli organi politici non ha bisogno di spiegazioni, traendo la sua giustificazione dalla legittimazione (divina, carismatica, democratica) del decidente, una decisione degli organi giudiziari deve essere giustificata in via discorsiva, mediante argomenti idonei ad esplicitare il percorso seguito per giungere alla selezione di una determinata alternativa.

In questo, anche le sentenze della Corte Costituzionale – in quanto giudice, per quanto peculiare – devono esprimere il passaggio da modelli autoritari di esercizio del potere, dove stat pro ratione voluntas, a modelli legali-razionali, dove stat pro voluntate ratio. La postilla, non irrilevante, è che la ratio della decisione debba essere scripta ed argomentata in modo tale da rendere evidente il percorso decisionale assunto da chi esercita il potere di decidere la controversia e di interpretare la Costituzione.

Entro questa cornice, Toniatti sosteneva che il dovere di motivazione delle sentenze rappresentava la chiave di volta per stabilire il confine fra giuridico e politico, consentendo di stabilire in quali occasioni il giudice assumesse decisioni apparentemente giuridiche ma sostanzialmente politiche.

Questa funzione era garantita dal fatto che il destinatario della motivazione era un soggetto che poteva criticarne il contenuto, facendo eventualmente valere le tecniche di tutela che l’ordinamento predisponeva nei confronti dell’atto immotivato.

Nel caso delle sentenze della Corte Costituzionale, mancavano tecniche di tutela diretta, ma ciò non esimeva il ceto dei giuristi dall’assumere posizioni critiche rispetto alle decisioni assunte ed agli argomenti addotti. Ne derivava che la scienza giuridica doveva assumersi l’onere di discutere pubblicamente le pronunce della Corte (e di ogni altro giudice di ultima istanza), con idonei osservatori e pubblicazioni periodiche.

Il pensiero di Toniatti, in tema, sollecita alcune riflessioni.

Al netto del ruolo dell’accademia e della verifica ex post dell’operato delle Corti, preme porre in rilievo la correlazione biunivoca fra obbligo di motivazione e responsabilità del decisore. L’obbligo di motivazione implica, già ex ante, un’assunzione di responsabilità nei confronti dei destinatari dell’atto da motivare; la responsabilità giuridica rispetto agli effetti delle proprie azioni implica l’obbligo di motivare; dove non esiste obbligo di motivare, non sussiste una responsabilità giuridica, ma unicamente una responsabilità politica del decisore, da valutare in rapporto alle caratteristiche del sistema istituzionale di riferimento (5).

Sin qui, si sono ribadite alcune tesi diffuse in dottrina e nella stessa giurisprudenza. Con riferimento alla motivazione degli atti amministrativi – ma con considerazioni a mio avviso estensibili a qualsiasi atto pubblico – la stessa Corte Costituzionale ha peraltro chiarito come la parte motiva dell’atto sia «il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile» (6).

L’insegnamento di Toniatti potrebbe fornire un’ulteriore chiave di lettura del fenomeno.

La funzione razionalizzatrice e responsabilizzante della motivazione degli atti giuridici – e, in particolare, delle sentenze – si può misurare in rapporto al modo in cui il discorso politico viene tradotto in argomenti giuridicamente pregnanti. La sufficienza della motivazione – o, comunque, la sua capacità di resistere alla critica del destinatario o dell’uditorio, compreso quello dei giuristi – si misura nella sua capacità di individuare le norme giuridiche di copertura attraverso cui gli interessi sono stati graduati ai fini di comporre un determinato conflitto.

Se tali norme corrispondono, attualmente, ai criteri di ragionevolezza, proporzionalità, precauzione, resta sempre aperto il problema della scelta del criterio da utilizzare ai fini del sindacato, che non può dirsi mai del tutto neutrale.

Gli esempi derivanti dalle tragiche vicende di questi mesi sono lampanti, soprattutto in rapporto alle decisioni assunte da Stato ed autonomie territoriali nella gestione della crisi sanitaria ed economica derivante dalla pandemia. Chi critica alcune misure di limitazione delle libertà personali ed economiche sulla base del principio di proporzionalità muove implicitamente dalla premessa per cui l’intervento dello Stato e degli enti territoriali debba essere ispirato al criterio del minimo mezzo, ossia al favor libertatis (7); chi si oppone a questa tesi lo fa sulla base del principio di precauzione, che fa prevalere la tutela della salute pubblica sulla libertà individuale, legittimando tutte le ulteriori scelte di contenimento delle attività socio-economiche (8).

Se si dovessero sindacare le scelte politico-amministrative assunte nella gestione della pandemia, la scelta della norma di copertura condizionerebbe il contenuto del sindacato e la stessa stesura della motivazione della sentenza Che il problema non sia meramente teorico lo conferma la recente sentenza del Tar Calabria, Reggio Calabria, n. 841/2020, che, con riferimento alle deroghe introdotte dalla Regione Calabria alle previsioni del d.p.c.m. 26.4.2020, ha ritenuto illegittime le previsioni regionali anche nella parte in cui violavano il principio di precauzione della gestione della crisi sanitaria, non quello di proporzionalità.

Resta aperto il problema della politicità o giuridicità della scelta del parametro di riferimento, e, dunque, della ricerca della norma di copertura che legittima il ricorso a parametri come la proporzionalità o la precauzione, oltre alla loro auspicata integrazione (9).

La necessità di integrare proporzionalità e precauzione è evidente anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Il problema è stato affrontato nella sentenza Schaible, relativa ad una controversia in cui veniva in gioco il bilanciamento fra libertà di impresa e misure di prevenzione e contrasto delle malattie infettive di ovini e caprini. Per quanto la sentenza faccia apparentemente salvo un controllo di proporzionalità delle scelte legislative determinate da esigenze di precauzione e prevenzione, nei fatti il sindacato della Corte si riduce ad una valutazione estrinseca della attendibilità della scelta compiuta dal legislatore in rapporto al contesto istruttorio di riferimento. Ne discende che non si pratica un effettivo contemperamento fra proporzionalità e precauzione, risultando prevalente il secondo principio, salvo che la decisione assunta non appaia «manifestamente erronea alla luce degli elementi di cui questi disponeva al momento dell’adozione della normativa stessa».

Si potrebbe dunque sostenere che la rilevanza politica di determinati interessi condizioni, a valle, la stessa scelta dei parametri sui quali basare il sindacato delle leggi o degli atti amministrativi, facendo riemergere la politicità delle sentenze quando la si riteneva ormai razionalizzabile sulla base dell’obbligo e del controllo della loro motivazione.

La difficoltà di individuare soluzioni appaganti conferma la perdurante necessità di una conoscenza critica del fenomeno giuridico, nel solco di un esempio ben lungi dall’esaurirsi, come quello di Roberto Toniatti.

1. Si fa riferimento a G. Amato, A. Barbera, a cura di, Manuale di diritto pubblico, Bologna, IV ed., 1994; V. Angiolini, a cura di, Libertà e giurisprudenza costituzionale, Torino, 1992; R. Guastini, Il giudice e la legge, Torino, 1995.

2. In questo il corso di Toniatti si correlava, più che alle Istituzioni di diritto pubblico impartite – in termini più classici e sistematici – dal professor Fulvio Zuelli, alla filosofia del diritto allora insegnata da Giovanni Orrù, a propria volta autore di un fondamentale saggio, la cui lettura era a ragione imposta agli studenti del primo anno: G. Orrù, I criteri extralegali di integrazione del diritto positivo nella dottrina tedesca contemporanea, Milano, 1977.

3. Non mancavano, a tal fine, interventi in aula di magistrati. Nella primavera del 1998 fu ospite il dott. Carlo Ancona del Tribunale di Trento, che bene esemplificò la forma mentis della magistratura a fronte di questioni sensibili, come quelle legate alla tutela della salute.

4. Il tema era stato oggetto, pochi anni prima delle lezioni di Toniatti, di un importante convegno, i cui atti furono raccolti in A. Ruggeri, a cura di, La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Torino, 1994.

5. Sia concesso un più ampio rinvio ad A. Cassatella, Il dovere di motivazione nell’attività amministrativa, Padova, 2013.

6. Cfr. Cort. Cost. ord., 29.4.2015, n. 92, rel. de Pretis.

7. Cfr. M.L. Di Bitonto, Il necessario principio di proporzionalità durante il lockdown: in open.luiss.it., 2020.

8. Cfr. T. Pasquino, Il principio di precauzione ai tempi del Covid-19 tra “rischio” ed “emergenza”, in  www.biodiritto.org., 2020.

9. Cfr. Corte di Giustiza, Quinta Sezione, 17.10.2013, C-101/12. Con riferimento alla diffusione della xylella presso le piantagioni di ulivi, la medesima logica – che va prevalere le esigenze di precauzione su quelle di proporzionalità, a condizione che le misure restrittive siano soggette a revisione periodica ed abbiano quindi un carattere limitato nel tempo – cfr. Corte di Giustizia, Sez. I, 9.6.2016, C-78 e 79/16, Pesce e Serinelli.

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